Di tutto un po'......

giovedì 4 aprile 2019

Il "Dumbo" burtoniano

  Il primo bivio fra l'inarrivabile film d'animazione del 1941 e il nuovo Dumbo sta in un incontro di treni alla stessa fermata: Casimiro, il simpatico trenino che va “verso la città” al ritmo della nota canzoncina e un altro treno che non trasporta animali ma persone immerse nella realtà quotidiana. Udendone l'arrivo, due bambini corrono fuori dal variopinto campo del circo e attendono il padre, tornato dalla guerra privo di un braccio.  Il Circo incontra la Vita attraverso l'elemento umano, il quale nel film del 1941 non viene rappresentato al di fuori della maschera circense lasciando agli animali parlanti il nucleo narrativo, tanto che nelle scene quotidiane (ad esempio il celebre montaggio del tendone ripreso da Fellini nel suo I Clowns ) i volti degli uomini sono celati.  Qui invece gli animali restano animali, non sono loro a consolare e incoraggiare Dumbo ma neppure a escluderlo e umiliarlo; bontà e cattiveria appartengono al genere umano, dalla burbera dolcezza del cowboy Holt e di Colette alla spietatezza di Skellig il quale, novello Crudelia Demon, vorrebbe nuovi stivali di pelle d'elefante.   E se una cicogna visita il campo proprio nella notte in cui nasce Dumbo, altri due pilastri dell'umanizzazione animale, il topolino e la piumetta , sono qui ridimensionati a icone del metodo scientifico (rispettivamente Skinner e Pavlov) caro all'illuminista Burton.  Metodo con cui la piccola Milly ammaestra Dumbo a utilizzare al meglio ciò che alcuni considerano mostruosità, altri meraviglia da sfruttare ma che per la scienza è solo darwiniana evoluzione, troppo vera per mescolarsi all'affascinante artificio del circo, dove una ragazzona in pailettes dietro un acquario è una sirena e “il cervo volante, il drago volante e lo scoiattolo volante” vengono anch'essi presentati come fenomeni.    Ecco allora Dumbo sorvolare le valli dell'India, con gli elefanti selvaggi protesi ad ammirarlo come le giraffe dal collo corto verso la prima che arrivò a brucare i rami più alti. Alle sue spalle, il piccolo circo Medici (omonimi dei mecenati delle scienze) salvato dallo strapotere di Dreamworld, tetro e sfavillante antesignano dei parchi divertimento (il portale spalancato in un sorriso clownesco è quello di St. Kilda, anno 1912), teatro di meraviglie (il sogno di Dumbo ubriaco qui si fa spettacolo e magia) che alla fine crolla tra le fiamme mentre l'elefantino vola via, prendendo forse le distanze da Disneyland e da sé stesso. A  ricongiungerlo alle proprie origini è il rapporto con la mamma, identico al film del 1941 perché anche lì gli unici animali a non parlare sono proprio Dumbo e la signora Jumbo, archetipo della Madre nell'amorosa presenza  che non ha bisogno di parole per esprimersi; se non quelle della stupenda  Baby mine, qui prestata dalla voce di Elisa a un falò di poveri freaks del circo, nel più autentico stile burtoniano.

                       

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